OBSERVARE

Universidade Autónoma de Lisboa

ISSN: 1647-7251

Vol. 3, n.º 2 (outono 2012), pp. 1-16

DOPO LA PRIMAVERA ARABA: IL PROBLEMA DELLA LIBERTÀ DI RELIGIONE

Mario G. Losano

mario_losano@yahoo.it

Professore emerito di Filosofia del diritto e di Introduzione all'informatica giuridica presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro” (Alessandria); professore nella Scuola di Dottorato in Diritti e Istituzioni dell'Università degli Studi di Torino; professore visitante, in Brasile, presso la Universidade do Estado de Minas Gerais, Belo Horizonte. Aree di ricerca: Filosofia del diritto; teoria generale del diritto; circolazione mondiale delle idee giuridiche e sociali; filosofia politica; diritti umani; geopolitica; informatica giuridica; privacy; e-publishing; edizioni di archivi storici. Ha finora pubblicato oltre 50 volumi e 500 saggi originali. Suoi libri e saggi sono stati tradotti in 12 lingue. La bibliografia completa è nel sito: www.mariolosano.it. Premio “Alexander von Humboldt-Forschungspreis”, 1995, Bonn; Dottorati honoris causa delle Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Hannover, dell'Universidad de la República, Montevideo e dell’Universidad Carlos III, Madrid. Onorificenze: “Comendador da Ordem Nacional do Cruzeiro do Sul” per meriti culturali, Brasile; “Oesterreichisches Ehrenkreuz für Wissenschaft und Kunst”, Austria.

Riassunto

La “primavera araba” del 2011 ha suscitato in Occidente aspettative che spesso non tengono conto della realtà dei paesi islamici. Infatti la tradizione laica dell’Occidente ostacola spesso la comprensione del forte sentimento religioso che permea la realtà sociale del mondo islamico, anche se in modo non unitario: le correnti moderniste, tradizionalisti e fondamentaliste hanno una concezione diversa dello Stato islamico moderno. Per chiarire questa diversità viene esaminata la storia dei rapporti tra Stato e Islam, la compenetrazione (in una misura oggi impensabile in Occidente) tra Stato, religione e diritto, e la conseguente diversa percezione di singoli comportamenti individuali. Questo incontro-scontro con la visione politica occidentale si è concretizzato negli Stati islamici con l’imposizione del diritto occidentale nell’epoca coloniale, e – in direzione opposta – sta verificandosi oggi in Europa con la crescente immigrazione di fedeli islamici. La stipulazione di concordati (soluzione possibile con le altre religioni monoteiste) non è praticabile con le comunità islamiche, perché l’Islam non prevede una struttura ecclesiale organizzata gerarchicamente, e quindi gli Stati occidentali non trovano un interlocutore unico e ufficiale. All’interno del singolo Stato occidentale va così affermandosi una convivenza spesso difficile tra il diritto dello Stato occidentale e quello islamico, convivenza che sta conducendo a nuove forme di pluralismo giuridico. Nei rapporti internazionali, la differenza di livello economico fra gli Stati occidentali e quelli entrati nella “primavera araba” rende difficile per questi ultimi realizzare rapidamente uno Stato moderno. I possibili modelli oscillano fra la teocrazia iraniana e il laicismo turco, e le infinite vie intermedie. Oggi la tendenza sembra andare nella direzione di uno Stato islamico, come dimostra l’evoluzione costituzionale del Pakistan: ma ogni previsione è discutibile, perché il processo di trasformazione iniziato con la primavera araba

èsolo ai suoi inizi. Infine, il modello delle costituzioni occidentali si scontra con il rigore della religione islamica, che non ammette la conversione di un musulmano ad altra religione. Chi abbandona l’Islam commette il reato di apostasia, che la legge coranica punisce con la morte. Il diritto fondamentale della libertà di religione diviene così un ostacolo pressoché insormontabile nell’introduzione di una costituzione di modello occidentale in uno Stato dalla popolazione prevalentemente islamica.

Parole-chiave:

Sharia; diritto coranico; laicismo; pluralismo giuridico; libertà di religione; apostasia

Come citare questo articolo

Losano, Mario G. (2012). "Dopo la primavera araba: il problema della libertà di religione". JANUS.NET e-journal of International Relations, Vol. 3, N.º 2, outono 2012. Consultado [online] em data da última consulta, observare.ual.pt/janus.net/pt_vol3_n2_art1

Manoscritto ricevuto nel 24 di ottobre 2012; accettato per la pubblicazione a 5 di novembre 2012

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Dopo la Primavera Araba: il problema della libertà di religione

Mario G. Losano

DOPO LA PRIMAVERA ARABA: IL PROBLEMA DELLA LIBERTÀ DI RELIGIONE

Mario G. Losano

1. La “primavera araba”: a quando un estate di “democrazia liberale”?

L’esame della “primavera araba”, in questo momento, non può essere che un bilancio provvisorio, destinato ad essere mutato anche in breve tempo. Infatti, quella promettente primavera, che però non annuncia ancora la feconda pienezza dell’estate. Cioè, fuor di metafora, i moti antidittatoriali non hanno ancora gnenerato strutture politiche si avviino a seguire le strutture delle democrazie occidentali. Bisogna anche aggiungere che questa linea evolutiva sembra inevitabile agli occidentali, mentre in concreto – calata cioè nel contesto islamico – non lo è necessariamente. Basti pensare ai problemi connessi con l’inclusione dell’Islam nelle costituzioni da poco riformaate (come in Marocco nel 2011) o in corso di preparazione (come in Egitto nel 2012).

Un aspetto problematico dei paragoni politici risiede nell’omogeneità dei termini che vengono confrontati, perché in politica i confini sono più labili e i termini più indefiniti che nelle scienze naturali. Non è scientificamente accettabile, ad esempio, confrontare la teoria dello Stato comunista con la realtà di uno Stato democratico (e, ovviamente, viceversa). Non lo è neppure confrontare l’ideale di uno Stato islamico con la realtà di uno Stato democratico-liberale (e, ovviamente, viceversa).

Per evitare questo pericolo, il titolo va precisato: non credo che oggi – di fronte agli sconvolgimenti degli Stati del Mediterraneo meridionale – possa interessarci in questa sede un confronto fra la teologia islamica e la teoria politica liberal-democratica. Il problema che da qualche decennio si discute e che, oggi, è divenuto di estrema attualità è se (e, in caso affermativo, in quale misura) le strutture fondamentali dello Stato democratico-liberale possano essere trasferite in uno Stato la cui classe dirigente e la cui popolazione professino nella maggioranza la religione islamica. In sintesi: possono l’Egitto, la Libia, l’Algeria, la Tunisia, il Marocco trasformarsi in tempi ragionevoli in Stati dalle strutture che si approssimino a quelle degli Stati democratici, e cioè che abbiano elezioni libere e periodiche, Stato di diritto, istituzioni indipendenti e partiti liberi?

Questa domanda contiene un duplice veleno. In primo luogo, un veleno etnocentrico. Essa contiene infatti un implicito giudizio di valore positivo da parte degli occidentali sulla superiorità del proprio ordinamento politico. Perché mai la democrazia liberale, che va bene per l’Occidente, deve necessariamente essere ben accetta anche a una popolazione islamica? E poi, questa democrazia liberale è esportabile con successo? In certi casi, sì (India, Giappone, Corea del Sud, America Centro-meridionale: ovviamente con sfumature diverse e con clamorose cadute autocratiche). In certi casi, parrebbe di no: Iraq e Afghanistan sono problemi insoluti. Dopo anni di guerra e di tentativi di

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democratizzazione si possono sentire dichiarazioni come questa: “I talebani facevano pendere il cadavere dell’impiccato per quattro giorni. Noi lo faremo per un periodo breve: diciamo, quindici minuti […] Anche le lapidazioni pubbliche continueranno, ma useremo pietre piccole”1. Questa dichiarazione viene da un giudice dell’Alta Corte afghana, e risale al dicembre 2001. Infine, il Pakistan si dibatte in un’ambiguità poco compatibile con i modelli democratici: su questo Stato torneremo nel § 6.

Veniamo al secondo veleno. L’accettazione del modello occidentale implica la separazione tra Stato e religione, cioè il laicismo che – in varia misura – connota gli Stati occidentali. Ritorniamo così al problema definitorio. L’Islam, come tutte le religioni, è depositario di una verità assoluta ed è quindi incompatibile con il relativismo dello Stato laico. Secondo il teologo cattolico Hans Küng, in genere le religioni monoteistiche sono propense ad una separazione tra Stato e religione. Però, in concreto, esistono Stati teocratici “le cui istituzioni statali coincidono essenzialmente con quelle religiose”.

Teologicamente si tratta di eccezioni, ma l’Islam è una di queste: in esso, scrive Küng, “era impossibile una separazione fra Stato e religione. Era in gioco la sovranità di Dio nel senso più ampio possibile, fenomeno che può incontrarsi egualmente nel cristianesimo, anche se soltanto in casi eccezionali, per esempio nella Ginevra del riformatore Calvino, nel regno anabattista di Münster in Germania e, soprattutto, nello Stato ecclesiastico romano fondato nel secolo VIII ed esistente fino ad oggi come Vaticano”2.

Affrontando i rapporti fra Stato e religione nell’Islam bisogna evitare di cadere nel duplice errore che, anche volutamente, viene commesso in questi giorni concitati. Un errore in senso pessimista: negare a priori che uno Stato democratico possa convivere con l’Islam. Un errore in senso ottimista: confondere le proprie speranze democratiche con le effettive possibilità di sviluppo dei movimenti popolari di questi giorni.

Il presente breve testo rinuncia a distinguere fra le grandi dicotomie (sunniti e sciiti, cattolici e protestanti) e fra le mille sfumature indispensabili per parlare di una comunità di quasi un miliardo e mezzo di fedeli che va dal Marocco all’Indonesia. Si ragionerà per “paradigmi”, secondo la definizione di Kuhn, per il quale i paradigmi sono una costellazione globale di convinzioni, di valori, di modi d’agire condivisi dai membri di una comunità.

2. Stato e religione nell’Islam: tre correnti di pensiero

Il secolo scorso fu caratterizzato da una profonda evoluzione del mondo islamico, nel quale si possono oggi distinguere tre correnti spesso in conflitto tra loro: i modernisti, che propendono per un’occidentalizzazione del mondo islamico almeno per gli aspetti sociali, economici e giuridici; i tradizionalisti, che in certa misura corrispondono ai riformisti classici, cioè a quei fedeli dell’Islam tollerante, aperto all’Occidente e pronto a rinnovare – ma non a rinnegare – la propria tradizione culturale; infine i fondamentalisti, che predicano il rifiuto anche violento di quanto è occidentale, il ritorno

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Testo citato da Elisa Giunchi, Afghanistan. Storia e società nel cuore dell’Asia, Carocci, Roma 2007, p. 15. Hans Küng, El Islam. Historia, presente, futuro, Trotta 2006, p. 650. I passi citati nel presente testo sono tratti dall’edizione spagnola e da quella tedesca del volume di Küng.

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alla fede integrale del passato, la costruzione di uno Stato teocratico e l’applicazione rigorosa ed estrema della legge coranica.

Va qui preliminarmente ricordato che il Corano presenta una sacralità ben più inespugnabile, per esempio, dei Vangeli. Il Corano è direttamente dettato da Dio a Maometto, mentre i Vangeli sono testi storici, ciascuno con un autore e un contesto socio-linguistico. Basti qui pensare alle polemiche che hanno accompagnato le (tarde) traduzioni del Corano (esso è stato rivelato in arabo e in arabo deve essere studiato e recitato) o le (tarde) edizioni a stampa (il Corano è stato scritto a mano e per questa via deve perpetuarsi). Per una sintesi di questi problemi rinvio alla mia recensione a un recente libro, giornalistico ma stimolante3.

L’errore della visione occidentale consiste nell’ignorare questa pluralità di fermenti e nell’identificare l’Islam attuale con i soli fondamentalisti, a causa delle violenze che accompagnano le loro rivendicazioni, in vista della presa del potere, e a causa dell’arretratezza sociale che connota le loro realizzazioni nell’esercizio del potere stesso. I fondamentalisti hanno maggiore visibilità mediatica, ma sono una minoranza rispetto alle popolazioni degli Stati che ci ostiniamo a chiamare “musulmani”: in ciò ricalchiamo l’atteggiamento manicheo di Al Quaeda, che identifica l’insieme degli Stati occidentali come Stati “cristiani”. Però, quando si parla di Stati, ci si deve attenere alle forme di regime, e non alla religione.

Alle tre correnti dell’Islam ora indicate corrispondono tre visioni dello Stato moderno nelle terre dell’Islam.

L’affermarsi dei regimi ispirati al fondamentalismo islamico, oggi comunemente chiamati «fondamentalisti», ha aperto una discussione a livello mondiale sulla posizione della donna nell’Islam, discussione spesso viziata da preconcetti etnocentrici e politici. L’Islam ammette una certa libertà della donna. Essa ha una capacità piuttosto limitata nell’ambito del diritto famiglia ma più ampia nell’ambito negoziale. Il problema della donna nell’Islam attuale è che queste possibilità esistono nella dottrina, ma vengono variamente (e spesso restrittivamente) applicate nella pratica. I modernisti sono per un progressivo avvicinamento ai modelli occidentali (per esempio, in Libano); i tradizionalisti sono favorevoli a una guardinga autonomia femminile (per esempio in Egitto; ma anche, per certi aspetti soprattutto professionali, in Iran); i fondamentalisti, infine, vanno persino oltre all’interpretazione restrittiva della lettera del Corano (con la segregazione femminile, con il divieto di istruzione e di lavoro: per esempio, in Afghanistan).

Per evitare generalizzazioni errate, bisogna tenere presente che, né sul piano teorico né su quello pratico, esiste un unico Islam così come non esiste un unico cristianesimo.

3. Rapporto tra Stato e religione nella storia dell’Islam

Il rapporto fra Stato e religione è radicalmente diverso nella tradizione islamica e in quella occidentale. Il cristianesimo delle origini dovette scontrarsi con un’entità statale saldamente strutturata come l’Impero Romano: per fronteggiarlo dovette quindi assumere strutture analoghe. Basti pensare a quanto il diritto canonico si sia modellato

3Mario G. Losano, Recensione a: Carlo Panella, Fuoco al Corano in nome di Allah. L’Inquisizione islamica contro la stampa, Rubettino, Soveria Mannelli 2011, 103 pp. “Sociologia del diritto”, XXXIX, 2012, n. 2, pp. 184-187.

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su quello romano. L’Islam delle origini si trovò invece in una situazione opposta: la predicazione di Maometto nasce come predicazione religiosa in un contesto di tribù nomadi e di città scoordinate. L’embrione di Stato islamico nasce quando Maometto è chiamato dalla Mecca a Medina per integrare le tribù in una comunità: è dalla religione che nasce lo Stato. In sintesi, la religione cristiana ha dovuto adattarsi allo Stato romano preesistente, mentre lo Stato islamico ha dovuto modellarsi sulla religione islamica preesistente4. Dalle origini ad oggi sono passati secoli di modernizzazione, di colonialismo e di decolonizzazione, ma questa diversa origine è tuttora percettibile.

La differenza maggiore fra le due religioni è visibile nel diritto. Il cristianesimo riconosce il diritto dello Stato e, in particolare, il diritto dello Stato nazionale: non può far altro che cercare di introdurre nel diritto nazionale gli elementi che ritiene fondamentali per la propria visione religiosa. Basti qui evocare il celebre detto “Date a Cesare quel che è di Cesare” e lo stuolo di commenti che l’hanno accompagnato nei secoli. Ma oggi è difficile individuare in concreto questa linea di demarcazione fra Stato e religione perché oggi la scienza ha spostato – e sta continuamente spostando – i confini della nascita e della morte. Basta menzionare i problemi, da un lato, dell’accanimento terapeutico e dell’eutanasia e, dall’altro, quelli dell’aborto e del controllo delle nascite: quest’ultimo è oggi una delle radici del dramma economico e sociale degli Stati islamici. La Cina se ne era resa conto da anni ed aveva inaugurato la politica del figlio unico, fonte di altri problemi sociali ma impensabile in un contesto islamico.

Infatti l’Islam detta anche le regole giuridiche per la vita sociale e quindi lo Stato islamico si attiene a queste regole religiose. Il cittadino cristiano è vincolato dal diritto nazionale. Il fedele musulmano è – in quanto tale – soggetto al diritto islamico indipendentemente dallo Stato nazionale in cui si trova.

Basti l’esempio della condanna a morte di Salman Rushdie per i suoi Versetti satanici. Un ayatollah iraniano emana una fatwa che condanna a morte un indiano cittadino inglese che vive in Gran Bretagna, dove ha commesso il reato/peccato di scrivere un libro ritenuto blasfemo. Questa condanna urta contro tutti i principi giuridici occidentali (fondati sulla concezione territoriale del diritto), ma è invece una diretta conseguenza della concezione giuridica islamica (fondata sulla concezione della soggezione personale al diritto). Rushdie, come islamico, è soggetto al diritto islamico indipendentemente dal luogo in cui si trova: per l’Occidente è una situazione aberrante, perché porta al conflitto fra due ordinamenti; per l’Islam è normale, perché il diritto islamico è di origine divina, e quindi è superiore a qualsiasi ordinamento umano.

A tutto ciò si aggiunge un ulteriore problema sul quale torneremo: nell’Islam si può entrare, ma non uscire. Dall’Islam si esce solo con la morte, che è anche la pena che accompagna il reato di apostasia.

Le due concezioni giuridiche – l’occidentale e l’islamica, la territoriale e la personale – sono inconciliabili. I malintesi nascono dal fatto che gli europei pensano lo Stato, la sovranità e le frontiere secondo il loro modello nazionale, e gli islamici secondo il loro modello universale.

4Vedi, più estesamente, il mio Cristianesimo e Islam, Stato e diritto. Apertura della Tavola Rotonda: Le

identità culturali e religiose, in: Vincenzo Ferrari (a cura di), Filosofia giuridica della guerra e della pace. Atti del XXV Congresso della Società Italiana di Filosofia del Diritto, Milano – Courmayeur, 21-23 settembre 2006, Franco Angeli, Milano 2008, 203-206 pp.

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Torniamo così al problema dell’omogeneità dei termini di paragone da cui eravamo partiti. La quasi totalità dei malintesi nasce dal fatto che si confrontano due termini non omogenei, cioè un regime politico (la democrazia) e una religione (l’Islam). E l’Islam è una religione rivelata, depositaria della verità assoluta. La democrazia è un regime politico fondato sul relativismo: infatti il pluripartitismo e l’alternanza di maggioranza e minoranza nella guida dello Stato implicano che i valori dell’una o dell’altra siano intercambiabili. Solo così è possibile il funzionamento della democrazia parlamentare.

Questi valori in alternativa devono però essere compatibili, altrimenti la democrazia si suicida. Lo si è visto nelle dittature europee degli anni Venti-Trenta, giunte al potere usando (e forzando) gli strumenti della democrazia parlamentare.

Già dal 1962, cioè dai primi anni dell’indipendenza dell’Algeria, Ben Bella, leader del Fronte di Liberazione Nazionale (FLN), aveva dovuto resistere alle forze religiose che volevano istituire uno Stato islamico. Queste forze si presentarono però come Fronte Islamico di Salvezza alle prime elezioni multipartitiche del 1991 e riuscirono a vincerle. Con un colpo di Stato i militari rovesciarono però il governo filo-islamico e dal 1992 il FIS è fuori legge. Il laicismo è stato salvato sacrificando la democrazia.

Oggi non si può escludere una concatenazione di eventi simili a questa in qualcuno degli Stati che sono ora in lotta con il proprio governo dittatoriale. Insomma, nessuno può dire se l’esito delle lotte attuali sarà la democrazia. Questi Stati hanno avuto storie molto diverse (per esempio, la Tunisia come protettorato, l’Algeria come colonia), ma nessuno di loro ha conosciuto un periodo di democrazia. Alle incognite di una gestione politica della quale non si ha esperienza si aggiungono i rischi di un contraccolpo di Stato da parte delle forze sconfitte, eventualmente con l’appoggio di gruppi fondamentalisti islamici.

Quest’ultimo rischio è stato prospettato più volte, nei primi tre mesi del 2011. Esso è servito ai dittatori deposti per invocare l’aiuto di quegli Stati occidentali che per decenni li avevano appoggiati, e che poi dovettero abbandonarli di fronte all’ira popolare; ma era anche un alibi populista dell’Occidente per prendere le distanze dai movimenti rivoluzionari in corso e, quindi, per coprire l’inerzia dei governi europei di fronte agli eventi.

Invece il rischio del contraccolpo di Stato non dovrebbe essere sottovalutato. In una condizione meno convulsa, cinque anni dopo una transizione esemplare, la Spagna il 23 febbraio 1981 visse un tentativo di colpo di Stato, che oggi può essere considerato un relitto storico, anche se non tutti i suoi aspetti possono considerarsi chiariti.

Se guardiamo la storia post-coloniale, i risultati soddisfacenti sono pochi.

4. La convivenza del diritto islamico con il diritto europeo in Europa

Una delle conseguenze della forte immigrazione islamica in Europa è la convivenza del diritto islamico (personale, come si era detto), con il diritto positivo locale (cioè nazionale). Gli immigrati portano con sé tradizioni sociali, ma anche organizzazioni religiose e, quindi, giuridiche spesso in contrasto con la legislazione della nazione d’accoglienza e, in generale, con i diritti umani. In campo giuridico, due soluzioni possibili appaiono particolarmente complesse rispetto alla fede islamica: a) la mancanza di una gerarchia riconosciuta e unica rende quasi impossibile la stipulazione

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di concordati, come avviene con altre religioni; b) si può tentare un coincidenza di fatto fra ordinamenti giuridici diversi; in questo caso il multiculturalismo assume la forma del pluralismo giuridico, cioè della compresenza di due ordinamenti giuridici. Le due vie – concordato o pluralismo giuridico – richiedono qualche ulteriore considerazione.

a)Concordato e islamismo. L’esperienza concreta ha finora dimostrato che per lo Stato occidentale è difficile concludere un accordo formale con i cittadini di fede islamica perché quest’ultima non prevede una gerarchia unica e ufficiale, che sia l’unica controparte dello Stato. Di conseguenza, l’accordo raggiunto con un gruppo islamico non viene riconosciuto da altri, e il problema della regolata convivenza rimane senza soluzione.

Un’indubbia difficoltà nel regolare i rapporti tra Islam e Stato democratico europeo è la struttura non gerarchica dell’Islam, che non ha finora permesso di stipulare un concordato analogo a quelli esistenti, per esempio, fra Stato e Chiese protestanti.

L’esistenza di un concordato non esclude frizioni e conflitti, specie in paesi con una forte presenza della Chiesa-gerarchia, come Italia o Spagna. Esso tuttavia incanala il confronto nella direzione del dialogo, e non dello scontro, stabilendo forme e regole per giungere a soluzioni di compromesso. Tanto l’Italia quanto la Spagna hanno stipulato un concordato con la Chiesa cattolica, recependolo nella propria costituzione. In entrambi i casi, il Concordato non elimina i conflitti, che ciclicamente si intensificano o si rarefanno in base alla maggiore o minore forza contrattuale della Chiesa nei confronti dello Stato.

Basti qui soffermarsi su alcuni aspetti della situazione spagnola. I problemi giuridici sorsero già con l’inserimento del concordato nella costituzione laica della Seconda Repubblica. Per la posizione dello Stato laico è esemplare il discorso di Manuel Azaña del 14 ottobre 1931, quando si discuteva il concordato davanti alle Cortes. Pur indirizzando il concordato verso soluzioni non settarie, è celebre la sua affermazione: “La Spagna ha cessato di essere cattolica”. Azaña precisava poi che si riferiva al “cattolicismo spagnolo” creativo, cioè a quel fervore religioso che generò “un romanzo e una pittura spagnola, in cui si tocca con mano quanto essi siano impregnati di fede religiosa”.

Lo stesso, mutatis mutandis, vale per il concordato spagnolo attuale, recepito nella costituzione del 1978. Un concordato non conflittivo apre infatti la porta a pressioni da entrambe le parti. Di qui i vantaggi che la Chiesa riesce a strappare allo Stato laico: per esempio, le esenzioni fiscali, l’insegnamento della sola religione cattolica nelle scuole statali e la nomina degli insegnanti di religione.

Nei rapporti fra Stato e Chiesa la Spagna ha vissuto nel 2011 due problemi esemplari.

Una sentenza della Corte Costituzionale ha riconosciuto – dopo dieci anni! – che il licenziamento da parte del vescovo di un’insegnante di religione era infondato, perché la causa del licenziamento era il fatto di “sposarsi civilmente con un divorziato”. La Corte Costituzionale ritenne che il licenziamento costituisse “un vulnus al suo diritto alla privacy”. Su questo tema esistono molte altre sentenze e riconoscimenti di indennizzazione ai licenziati5.

5Sintesi degli eventi: La Iglesia no puede prescindir de docentes por ‘pecar’ fuera de la clase, “El País”, 20

de abril de 2011, p. 23. Commento: Despido espiscopal, “El País”, 20 de abril de 2011, p. 22.

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In direzione contraria, il Tribunal Superior de Justicia di Madrid ha proibito nel 2011 la cosiddetta “processione atea”, prevista per il Giovedì Santo più o meno nell’orario delle processioni cattoliche. La sentenza afferma che la “processione atea” sarebbe “un castigo per la coscienza cattolica, che subirebbe così un danno”: danno, si obietta, indimostrabile. Gli atei madrileni ritengono invece violato il proprio diritto di riunione6.

Poiché nella nostra epoca la scienza ha esteso le frontiere della vita e della morte, sorgono sempre più spesso conflitti tra la visione laica e quella ecclesiastica su problemi impensabili mezzo secolo fa. Questi conflitti rappresentano spesso un’invasione della Chiesa nei territori dello Stato, quando ad esempio – nei casi di aborto, pillola del giorno dopo, accanimento terapeutico ecc. – la Chiesa raccomanda l’obiezione di coscienza a medici e farmacisti che operano nelle strutture sanitarie pubbliche, e che sono quindi funzionari dello Stato.

In conclusione, è fisiologico che esistano questi contrasti fra Stato e Chiesa; quello che importa è che i concordati indichino la via del dialogo per giungere ad una loro soluzione pacifica. Con la religione islamica, però, lo Stato occidentale non riesce a determinare univocamente la controparte con cui trattare per giungere a una soluzione di compromesso.

A questa difficoltà si aggiunga, in Italia, la cattiva volontà (per usare il termine più blando) della Lega Nord e dei suoi amministratori locali, che hanno fatto del conflitto con gli immigrati (e, soprattutto, con l’Islam) una bandiera identitaria per la propria base elettorale, grazie alla quale cercano di far dimenticare che negli oltre tre anni dell’ultimo Governo Berlusconi, conclusosi nel novembre 2011, non hanno realizzato un solo punto del loro programma elettorale.

b)Pluralismo giuridico e islamismo. Se si accettano pratiche specifiche di un certo gruppo sociale, ma non previste (o addirittura contrarie) al diritto nazionale, si creano disparità fra i cittadini. E queste disparità sono spesso incompatibili con le norme delle singole costituzioni. In altre parole, c’è il rischio che, nel corso del tempo, si modifichi informalmente l’ordinamento nazionale introducendo puntuali sentenze fondate sull’accettazione di comportamenti d’un certo gruppo sociale.

Volendo stabilire una scala di comportamenti punibili, certi comportamenti ricadono nelle norme penali vigenti. Per esempio, nei matrimoni combinati, il sequestro di persona e la violenza sono reati previsti dai codici penali. In molti casi, però, essi non sono sentiti come un reato da almeno una delle parti coinvolte.

In altri casi è stato necessario introdurre specifiche norme penali, posto che non si potevano interpretare per analogia le norme penali vigenti. Ad esempio, nel caso della mutilazione genitale femminile, vengono emanate norme (come in Spagna) che puniscono il reato anche se esso non è stato commesso in Spagna.

Ma se da questi casi estremi passiamo a situazioni più sfumate, l’applicazione delle norme nazionali può risultare difficile. Nei matrimoni combinati, ad esempio, alcune immigrate avvertono come un fatto tradizionale, e non come un reato penale, la pratica dell’accordo delle famiglie sul nubendo, ovvero la minore età di uno dei nubendi.

6Sintesi degli eventi: El TSJM atribuye a los convocantes una voluntad de “castigo a lo católico”, “El País”,

21 de abril de 2011, p. 5. Commento: Sentencia confesional, “El País”, 25 de abril de 2011, p. 26.

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In certi casi, il giudice occidentale adotta misure ad hoc per non punire un comportamento tenuto senza dolo dalle parti, convinte anzi di doversi comportare così per tradizione o per diritto religioso. Non è infondato il timore che, per questa via, si generino disparità fra cittadini sottoposti al medesimo diritto nazionale.

Per evitare soluzioni fondate sull’uso alternativo del diritto7 – che nel Common Law produrrebbero precedenti vincolanti – la Gran Bretagna ha ufficialmente riconosciuto dal 2007 i Tribunali Musulmani di Arbitrato (Muslim Arbitration Courts), con l’approvazione anche dell’allora Arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams. Sono tribunali informali, senza registri ufficiali di atti, senza controllo sulla nomina dei giudici: esattamente come informale (non gerarchica) è la religione islamica. Questo riconoscimento del diritto islamico non è accettato da tutti, perché crea una disparità di trattamento fra cittadini dello stesso Stato. Contro questo pluralismo giuridico è quindi sorto in Gran Bretagna il movimento “One Law for All”, che esige l’applicazione del Common Law a tutti i cittadini8. A mio giudizio, rivestirebbe particolare interesse uno studio giuridico su questi tribunali nel contesto classico di Common Law.

In Canadà esiste dal 2004 un “Istituto di Giurisdizione Civile” che giudica secondo la Sharia. Grazie ad esso, circa un milione di musulmani in Canadà potrebbero godere di norme meno restrittive. Però non è chiaro se i musulmani devono accedere necessariamente a questa corte. Infatti alcuni preferiscono il diritto canadese. Il risultato è una disparità nella valutazione del medesimo comportamento.

L’aumento del numero degli islamici in Europa e la loro forza come gruppo di pressione genera numerose richieste che deviano dai modelli correnti nella società d’accoglienza. Ad esempio in Francia si discute sul rifiuto delle allieve musulmane di partecipare non solo alle lezioni di biologia, ma anche a quelle di letteratura (visto che molte opere classiche hanno per oggetto relazioni amorose); sull’introduzione di menu speciali; sul rifiuto, da parte di credenti musulmani, di personale medico di sesso diverso da quello del paziente; sul finanziamento di corsi, programmi radiofonici e televisivi in una lingua non nazionale; sull’obbligo del velo, sui matrimoni combinati. Le destre francesi si chiedono: si giungerà a ribattezzare Colombey-les-Deux-Églises, il paesino caro a De Gaulle, con il nome di Colombey-les-Deux-Mosquées?

In Germania, una sentenza del Tribunale Costituzionale tedesco del 2002 permette la macellazione islamica effettuata sgozzando pecore, buoi e capre: però si esige un’autorizzazione emessa dal mattatoio di Karlsruhe. Tuttavia il numero dei richiedenti è andato calando e, da ultimo, non si è più presentato nessun richiedente.

In conclusione – temono alcuni – è pericoloso ritenere che il “contesto culturale” consenta di discostarsi dall’interpretazione anche elastica della legge: questo uso alternativo del diritto finirebbe per giustificare l’omicidio d’onore, i matrimoni combinati ecc. Come minimo, applicato in casi anche meno gravi, genera disparità di valutazione del medesimo comportamento.

7Su questo tema cfr. la letteratura citata nel mio La legge e la zappa: origini e sviluppi del diritto alternativo in Europa e in Sudamerica, “Materiali per una storia della cultura giuridica”, vol. XXX, Il Mulino, Bologna 2000, pp. 109-151.

8Si veda il sito: <www.onelawfor all.org.uk>. Questa organizzazione ha anche pubblicato un libretto

informativo: Sharia Law in Britain. A Threat to One Law for All & Equal Rights, June 2010, 34 pp.

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5. Gli Stati islamici dal punto di vista dello Stato empirico

Nella versione moderata o modernista, l’Islam è compatibile con istituzioni in varia misura democratiche, anche se in molti casi si deve parlare di “democrazia autoritaria”9. Nella sua versione fondamentalista, invece, l’Islam propugna una teocrazia che è incompatibile con le strutture dello Stato democratico-liberale. Fra questi due estremi si colloca tutta una gamma di possibilità destinate ad un’evoluzione verso forme più compiute di democrazia, o ad un’involuzione verso forme più arretrate di autocrazia. Questa è l’alternativa per ora senza risposta davanti agli eventi della sponda meridionale del Mediterraneo.

Ne abbiamo due esempi in due Stati non arabi. L’Iran, erede dell’impero persiano, è il prototipo di Stato confessionale o teocratico. Purtroppo la politica di George W. Bush (con le due guerre insensate dell’Iraq e dell’Afghanistan) l’ha elevato a potenza regionale: un rango che senza quell’insperato aiuto esterno difficilmente avrebbe raggiunto. Invece la Turchia – con l’opzione per il laicismo voluta da Atatürk – ha scelto la via dell’occidentalizzazione sotto la tutela dell’esercito, in una forma di democrazia limitata aperta tanto all’evoluzione quanto all’involuzione10. La vittoria elettorale del partito islamico (moderato) ha prodotto in alcuni ambienti conservatori dell’Occidente reazioni allarmate, come se la presenza di un partito confessionale significasse un pericolo per la democrazia.

Si dimentica così che la democrazia occidentale è popolata di partiti confessionali: le democrazie cristiane dei vari Stati dell’Unione Europea non hanno destato alcun allarme. Inoltre anche in Occidente troviamo banche cattoliche o assicurazioni cattoliche. Le banche islamiche, quelle cioè che seguono i precetti coranici sui negozi aleatori e sull’interesse, hanno aperto filiali in Europa; e anche in Italia alcune banche tradizionalmente italiane hanno aperto settori di islamic banking per la crescente clientela islamica.

Se prevale il laicismo secondo il modello turco, possono aprirsi le porte dell’Unione Europea, nonostante la forte disomogeneità economica e sociale. Ancora una volta, lasciamo da parte i desideri generosi e le prospettive di lungo periodo. Nei prossimi dieci anni le democrazie occidentali dovranno trattare con nuovi governi – sperabilmente democratici – che non presenteranno una situazione molto diversa dall’attuale in campo economico, demografico e culturale. Esaminiamo brevemente i dati sul PIL pro capite, sulla percentuale di giovani e sull’alfabetizzazione negli Stati della sponda meridionale del Mediterraneo e alcuni del Vicino Oriente: Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto, Giordania, Siria, Yemen.

9Questa forma apparentemente contraddittoria di regime è stata identificata nel regime bonapartista in Francia e in quello berlusconiano in Italia: Mauro Volpi, La democrazia autoritaria. Forma di governo bonapartista e la V repubblica francese, Il Mulino, Bologna 1979, 229 pp.; Antonio Gibelli, Berlusconi passato alla storia. L’Italia nell’era della democrazia autoritaria, Donzelli, Roma 2010, 121 pp.

10Nella stampa spagnola il “modello turco” è stato più volte indicato come possibile sbocco delle insurrezioni attuali, anche se non mancano voci contrarie, come la seguente: “Tal modelo, de existir, no lo sería nunca de democracia. En Turquía, lo que existe es un ejército que se ha arrogado un derecho de vigilancia sobre lo que votan los ciudadanos” (José María Ridao, Artistas no invitados, “El País”, 25 febbraio 2011, p. 27).

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PIL pro capite: si colloca sui 3-4000 euro all’anno, con la depressione dello Yemen (1.700 euro/anno) e la punta della Libia (12.000 euro/anno). Analogamente, il reddito pro capite si colloca fra i 1600 della Siria e i quasi 9000 euro della Libia11.

L’attrazione economica esercitata su questi paesi dall’Europa mediterranea (per l’Europa del Nord, i famigerati PIGS) risulta chiara dai seguenti dati sul reddito annuo pro capite della Grecia (22.160), dell’Italia (27.250), della Francia (32.600) e della Spagna (24.700). D’altra parte, il basso livello di reddito spiega perché l’aumento dei prodotti alimentari (e specialmente del pane) sia stato una delle micce delle insurrezioni: al loro inizio si parlava di “rivolte del pane”, come nell’Ottocento europeo. Solo in un secondo momento l’Occidente ha compreso che gli insorti volevano pane e libertà.

Percentuale di giovani: intendendo per “giovani” quelli cifre i 14 e 29 anni, si aggira intorno al 30% dell’intera popolazione12. Se si considera invece il segmento fra gli 0 e i 25 anni, (che sono poi quelli che nei prossimi anni si riverseranno sul mercato del lavoro), la percentuale si aggira intorno al 50% (con una punta del 65,4 in Palestina)13.

In Spagna, giovani tra i 14 e i 29 anni sono il 17,2% della popolazione. Alfabetizzazione: oscilla fra il 90% (Giordania) e il 50% (Yemen) della popolazione14.

In Spagna raggiunge il 98%. L’accesso all’educazione dei giovani arabi ha offerto loro la conoscenza di nuovi modelli di vita quotidiana e politica, ma non ha aperto loro un mercato del lavoro che fornisse i mezzi per realizzare quei modelli, né una vita politica rispondente ai nuovi modelli.

Disoccupazione: Rispetto ai dati dell’Unione Europea durante la presente crisi, la percentuale dei disoccupati sulla popolazione sembra non insostenibile, oscillando fra un 14% in Tunisia e l’8,7 in Egitto15. Ma andrebbe approfondito l’esame della qualità sia del lavoro, sia dei dati stessi.

In Spagna è previsto per il 2010 un 20%, per l’Italia un 8,5 e nella zona dell’Euro si aggira sul 10%.

L’incrocio di questi dati, anche se puramente indicativi, spiega perché ogni previsione del futuro immediato sia – nei primi mesi del 2011 – non solo incerta, ma anche tendenzialmente pessimista.

Qualunque forma di governo segua alle attuali, gli Stati sud-mediterranei attraverseranno un periodo di incertezza. Il basso PIB e i bassi redditi non consentono

11Reddito pro capite annuo in euro. Marocco, 2000; Algeria, 3255; Tunisia, 2550; Libia, 8970; Egitto, 1400; Giordania, 2500; Siria, 1600 (“La Vanguardia”, 20 febbraio 2011, p. 6; fonte: Banca Mondiale, 2008).

12Giovani fra i 14 e 29 anni sul totale della popolazione: Marocco, 28,1; Algeria, 31,4; Tunisia, 27,2; Libia, 27,9; Egitto, 28,6; Giordania, 29; Siria, 30,7; Yemen, 29,8 (“El País. Domingo”, 6 febbraio 2011, p. 2; fonte Banca Mondiale). Oltre alle percentuali, anche i valori assoluti devono far meditare: in Egitto, ad esempio, i giovani sono circa il 30% di una popolazione di 80 milioni di abitanti.

13Giovani fra 0 e 25 anni sul totale della popolazione: Marocco: 47,7; Algeria 47,5; Tunisia, 42,1; Libia,

47,4; Egitto, 52,3; Siria, 55,3; Yemen, 65,4 (“La Vanguardia”, 19 febbraio 2011, p. 8; fonte: Google Maps, Courrier International; “El País”, 21 febbraio 2011, p. 6; fonte Banca Mondiale e altri).

14Alfabetizzati sul totale della popolazione: Marocco 52,3%; Algeria 69,9; Tunisia, 74,3; Libia, 82,6; Egitto, 71,4; Giordania, 89,9; Siria, 79,6; Yemen, 50,2 (“El País. Domingo”, 6 febbraio 2011, p. 2; fonte Banca Mondiale).

15Percentuale di disoccupati sul totale della popolazione: Tunisia, 14,2; Algeria, 13,8; Giordania, 12,7, Siria, 10,3; Yemen, 11,5, Marocco, 9,6; Egitto, 8,7; Libia, mancano dati. La situazione non è diversa da quella di Stati ricchi di petrolio, come l’Iran e l’Arabia saudita, dove i disoccupati superano di poco il 10% (“El País”, 21 febbraio 2011, p. 6; fonte: Banca Mondiale e altri).

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investimenti che permettano di riassorbire in tempi medi la massa di giovani che si riversa sul mercato del lavoro, né di migliorare la qualità del lavoro. L’aiuto dell’Occidente richiederà tempo, e le esitazioni e lungaggini attuali non fanno pronosticare nulla buono. Certo, un piano Marshall per il Mediterraneo del Sud sarebbe utile, ma – applicato a quelle società – di quanto tempo avrà bisogno per portarle non ai 20.000 di reddito pro capite dei PIGS dell’UE, ma ai 7000 della Turchia attuale? Con l’aggravarsi della crisi economica in Europa, il silenzio è calato su questi progetti.

Le rivoluzioni generano aspettative di miglioramenti rapidi che quasi sempre vengono deluse. La democrazia liberale, col suo stato sociale, costa: e nel sud-mediterraneo i soldi mancano (o sono pessimamente distribuiti). La democrazia liberale richiede esperienza politica, e anch’essa manca nel sud-mediterraneo. Le difficoltà materiali che seguiranno l’entusiasmo della rivolta possono aprire il passo ad avventure politiche.

I problemi vengono dai fondamentalisti. Ma non solo da quelli islamici. Basti qui soltanto accennare al peso che il fondamentalismo protestante ha avuto nelle amministrazioni repubblicane degli Stati Uniti16 e che, a livello popolare, si è manifestato nel bruciare pubblicamente il Corano, provocando reazioni sanguinose contro sette impiegati delle Nazioni Unite in Afghanistan17. Una previsione ottimistica addita il modello turco: una democrazia autoritaria, ma perfezionabile. Un modello pessimistico guarda invece all’involuzione verso uno Stato islamico, come in Iran.

Non dimentichiamo che, alla visione demonizzata occidentale del fondamentalismo islamico, se ne contrappone una ben diversa: La portavoce dell’organizzazione (illegale ma tollerata in Marocco) Adl Wal Ihssane (Giustizia e Spiritualità), Nadia Yassine, paragona questa organizzazione alla teologia della liberazione latino-americana per l’opera di redenzione dalla miseria delle bidonvilles marocchine18. Se organizzazioni come questa si trasformassero in partito, potrebbero avere un peso rilevante nelle elezioni. E potrebbero avviare la rivoluzione verso uno Stato non democratico, ma islamico, come avvenne in Iran.

L’Iran è oggi un esempio di teocrazia islamica. Ma questa situazione odierna è stata condizionata da interventi occidentali. Infatti il primo ministro Mohammed Mossadeq aveva intrapreso una serie di riforme democratiche, ma nel 1953 – a causa della nazionalizzazione del petrolio – venne abbattuto da un colpo di Stato anglo- americano19, che permise il ritorno al potere dello Scià Reza Pahlavi, fino alla rivoluzione khomeinista del 1979.

6. Un esempio di Stato islamico: il Pakistan

L’eredità coloniale può dare frutti diversi. La colonia inglese dell’India, dopo l’indipendenza nel 1949, si divise in due Stati sulla base della religione prevalente sul territorio: la popolazione dell’India pratica il buddismo e l’induismo, mentre quella del

16Un testo standard è Georg M. Marsden, Fundamentalism and American Culture, Oxford University Press, Oxford 1980, XVI-351 pp. (seconda edizione). Un abbinamento curioso traspare dal titolo di Fabio Zanello (a cura di), American Mullah: voci del fondamentalismo cristiano americano, Coniglio, Roma 2009, 63 pp.

17Dell’imbarazzante condanna del Corano in un giudizio per Internet i giornali occidentali hanno parlato poco: Antonio Caño, Matanza por la quema de un Corán, “El País”, 2 aprile 2011, p. 3 r p. 4; “El País”, 3 aprile 2011, p. 6 e p. 7; “El País”, 9 aprile 2011, p. 12.

18Intervista a “The Guardian”, cit. in “La Vanguardia”, 20 febbraio 2011, p. 6.

19Stefano Beltrame, Mossadeq. L'Iran, il petrolio, gli Stati Uniti e le radici della Rivoluzione Islamica, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009, XIV-287 pp.

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Pakistan pratica l’islamismo. Partendo dallo stesso ceppo coloniale, l’India è oggi una delle grandi democrazie mondiali, mentre il Pakistan è una dittatura che si dibatte fra un’interessata fedeltà all’Occidente nella lotta contro il terrorismo afghano e una pericolosa indulgenza verso le frange estremiste dell’Islam20. Può essere illuminante esaminare quale forma sta assumendo questo Stato.

Il diritto del Pakistan moderno conosce tre stratificazioni: una tribale originaria (e ancora in parte conservata), una islamica e una occidentale di Common Law. Il mondo indo-pachistano fu tra i primi a sviluppare un diritto moderno che tenesse conto di due civiltà: il diritto anglo-musulmano. Si trattava però di una riforma importata dall’esterno, mentre esisteva un riformismo indo-islamico con una sua tradizione inserita nel contesto del movimento panislamico. I contrasti più gravi si verificarono fra il diritto occidentale introdotto dai colonizzatori e il diritto islamico risorto con l’indipendenza. Infatti alcune norme del diritto islamico sono in contrasto con valori occidentali come la certezza del diritto, la tutela dei diritti umani, la parità fra cittadini (e sono quindi in contrasto anche con i trattati che li sanciscono, benché sottoscritti da Stati islamici).

Solo con la separazione dell’India dal Pakistan, nel 1947, e con la formazione di uno Stato islamico in Pakistan il riformismo autoctono trovò la sua via. Trent’anni dopo l’indipendenza l’influenza del «revivalismo» islamico si faceva sentire anche nella legislazione pakistana con il divieto delle bevande alcooliche, delle scommesse, della prostituzione e dei locali notturni.

A differenza dall’Iran, la formazione di uno Stato islamico in Pakistan non ebbe radici popolari; tuttavia l’Islam venne accettato favorevolmente da larghi strati della popolazione, anche se venne imposto per giustificare un regime che non aveva una legittimazione formale perché nato dal colpo di Stato del luglio 1977 di Muhammad Zia ul-Haq. E proprio col 1977 iniziò anche un processo di islamizzazione del diritto penale pachistano che rappresentava un arretramento – almeno dal punto di vista cronologico

rispetto al diritto anglo-musulmano dell’India coloniale e unita. Questa tendenza venne rafforzata nel 1979 con l’emanazione delle Ordinanze hudud, così chiamate per il tipo di pena che comminavano: l’Ordinanza zina21 fa parte di questo gruppo e riguarda i reati contro la morale sessuale, cui i fondamentalisti ricollegano particolare importanza.

Quest’ordinanza riguarda una serie di reati, fra cui conviene soffermarsi soltanto sul reato di stupro e su quello di adulterio e fornicazione (zina), per i quali sono previste pene quasi identiche, anche perché di fatto la polizia tende a derubricare lo stupro in fornicazione: nei registri i due reati non sono tenuti separati. Lo stupro si realizza col rapporto sessuale tra due persone non validamente sposate fra loro e contro il volere d’una parte. La fornicazione e l’adulterio sono il rapporto sessuale consensuale tra due persone non validamente sposate. La casistica è complessa ed è qui necessario

20Una delle più recenti e attendibili descrizioni di questo Stato è il libro di Elisa Giunchi, Pakistan. Islam, potere e democratizzazione, Carocci, Roma 2009, 220 pp.

21Elisa Giunchi, Radicalismo islamico e condizione femminile in Pakistan, L’Harmattan Italia, Torino 1999, p. 107. Questo interessante volume, nato da una tesi di dottorato presso l’università di Cambridge, analizza varie sentenze dei tribunali islamici pachistani. Altre sono contenute nel più ampio testo inglese della tesi del 1994, intitolata The enforcement of the ordinance by the Federal Shariat Court in the period 1980- 1990, and its impact on women, consultabile presso la University Library di Cambridge.

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soffermarci su alcuni punti dell’ordinanza: per un esame completo esiste una ricerca italiana che rende conto delle caratteristiche giuridiche di questo tema22.

Le pene sono ispirate al classico rigore islamico: se il reo è una persona nel pieno dei

suoi diritti (muhsan: persona maggiorenne, libera, musulmana, sana di mente, che abbia avuto relazioni sessuali solo col coniuge regolarmente sposato; o, se non sposato, illibato), l’adulterio è punito con la lapidazione (che non è prevista dal Corano) e la fornicazione con cento frustate. Nel caso dello stupro, se il reo è muhsan, la pena è la lapidazione; se no, la pena sono cento frustate o «qualsiasi altra pena, inclusa la pena di morte, che il tribunale giudichi opportuna». Queste sono le pene massime, ma esiste una casistica che prevede la possibilità di una loro riduzione; inoltre il regime delle prove ostacola la condanna alle pene massime per questi reati. Tuttavia questi pochi cenni forniscono già un’idea della severità delle pene e della discrezionalità della loro applicazione.

In Pakistan, dopo l’istituzione dei tribunali islamici che, dal 1978, affiancano quelli preesistenti, una riforma costituzionale nel 1985 ha introdotto il diritto islamico come diritto dello Stato. I giudici pachistani possono così scavalcare il diritto positivo per richiamarsi, attraverso la costituzione, a un «altro» diritto. Un tipico esempio di questo divario di valori si ritrova anche nell’ordinanza sui reati sessuali, àmbito in cui si scontrano radicatissimi valori contrastanti. Uno studio su 156 sentenze riferentisi a quell’ordinanza giunge alla conclusione che, «soprattutto a partire dall’introduzione dell’art. 2-A nella Costituzione, i giudici della Corte Federale Shariat hanno fatto esplicitamente riferimento alle fonti di diritto islamico, giungendo addirittura a sospendere norme di diritto statutario e ad applicare la shari’a non codificata»23. Resta aperto il problema di quanto il richiamo al diritto islamico sia un fine (cioè il ritorno alla purezza delle origini contrapposto alla corruzione occidentale) oppure un mezzo (per affermare lo status quo politico e socio-culturale esistente). È tuttavia un dato di fatto che precedenti norme giuridiche, emanate secondo i principî occidentali, vengono oggi parzialmente disapplicate.

7.La difficile transizione da Stati postcoloniali islamici a democrazie di tipo occidentale

La storia dei rapporti fra Islam ed Europa è soprattutto una storia di conflitti. Hans Küng individua cinque scontri fra Islam e cristianesimo: “cristianesimo”, si noti, e non “democrazia”, poiché il confronto avviene non fra una religione e un regime politico, bensì fra religioni, cioè fra elementi omogenei. Il primo scontro fra Islam e cristianesimo è fra l’Islam e Bisanzio; il secondo avviene con la conquista della Spagna; il terzo con le crociate; il quarto con l’espansione ottomana verso Vienna; il quinto con il colonialismo del XIX e XX secolo. Di questa lunga tradizione ci interessa quest’ultima fase, perché essa ha creato le premesse sociali (il mancato sviluppo) e anche psicologiche (il risentimento) delle attuali tensioni.

22Offence of zina (enforcement of hudood) ordinance, N° VII, 1979: essa si propone «to bring in conformity with the Injunctions of Islam the law relating to the offence of zina», e precisamente «to modify the existing law relating to zina so as to bring it in conformity with the Injunctions of Islam as set out in the Holy Quran and Sunnah». Il testo integrale è contenuto in Hudood Laws in Pakistan. Foreword by Gul Muhammad Khan, Kausar Brothers, Lahore s.d., pp. 144.

23Elisa Giunchi, Radicalismo islamico e condizione femminile in Pakistan, L’Harmattan Italia, Torino 1999, p. 107.

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La data chiave di questo incontro non paritetico è il 1798, data della Campagna d’Egitto di Napoleone. Le discontinue conseguenze dell’ammodernamento possono essere valutati confrontando l’evoluzione del Giappone e della Turchia; ovvero dell’India e del Pakistan. In entrambi i classici casi, l’Islam sembra aver svolto una funzione di freno nell’ammodernamento.

Negli ultimi scontri del XIX e XX secolo, gli Stati islamici – e l’impero ottomano in particolare – hanno tentato di allinearsi con l’Occidente sul piano della tecnologia e dell’economia, ma con scarso successo. Di qui il diffuso risentimento anti-occidentale (e anti-americano) che pervade oggi grandi masse di islamici (e, in generale, dell’ex terzo Mondo).

8. Democrazia e apostasia: “Uccidete chi cambia religione!”

Le tre religioni monoteiste sono rigorose nel non ammettere l’abbandono della religione. Quando con Costantino, nel IV secolo, il cristianesimo divenne religione di Stato, l’apostasia si trasformò da peccato in delitto contro la sicurezza dello Stato. Tuttavia Sant’Agostino rifiutò la pena di morte per gli apostati. Otto secoli dopo questa posizione si radicalizzò con San Tommaso d’Aquino, che ammise la pena di morte contro chi abbandonasse la fede cristiana. Da questa concezione nacque il tribunale dell’Inquisizione.

L’Islam è analogamente duro. Nel Corano gli apostati sembrano condannati a dure pene solo nell’aldilà. Ma un detto tramandato nella sunna asserisce che il Profeta aveva espresso la necessità di punire l’apostata in questo mondo: e di punirlo con la morte.

Sino ai nostri giorni, gli Stati islamici riconoscono il diritto di convertirsi all’Islam, ma non di abbandonarlo. La pena di morte per l’apostasia viene giustificata dai fondamentalisti con riferimento allo Stato: poiché esso si fonda sulla religione, ogni attacco alla religione è un attacco alla stabilità dello Stato.

Questo ambiguo atteggiamento degli Stati islamici risulta evidente nella sottoscrizione della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo del 1948, il cui art. 18 sancisce “la libertà di cambiare religione o credo”. Già allora si rifiutarono di sottoscriverlo l’Afghanistan, l’Iraq, il Pakistan, l’Arabia Saudita e la Siria. E anche gli Stati firmatari dei trattati sui diritti umani non sempre li applicano sino in fondo24. Il 25 novembre 1981 venne approvata la “Dichiarazione delle Nazioni Unite sull’intolleranza e la discriminazione a causa della religione”. Un gruppo di Stati islamici ottenne che nell’art. 1 non si facesse menzione del “cambio di religione”. Nello stesso anno venne approvata una “Dichiarazione islamica sui diritti umani”25.

Nel 1981 il "Consiglio islamico per l’Europa” ha presentato una Dichiarazione islamica generale dei diritti dell’uomo26. L’arabista tedesco Martin Forstner dell’Università di

24Sulle riserve inammissibili e altre peculiarità applicative cfr. Deborah Russo, L’efficacia dei trattati sui diritti umani, Giuffrè, Milano 2012, XVI-322 pp.

25Vedi anche: Tecla Mazzarese – Paola Parolari, I diritti fondamentali. Le nuove sfide. Con un’appendice di carte regionali, Giappichelli, Torino 2010, 302 pp. (con i testi in italiano delle dichiarazioni dei diritti umani nei vari continenti, pp. 155-302: in particolare, Dichiarazione del Cairo sui diritti umani nell’Islam, pp.

253-259; Arab Charter of Human Rights, pp. 261-276); AA. VV., Les droits de l’homme et l’Islam. Textes des sorganisations arabe et islamiques, Universitè de Strasbourg 2010, Strasbourg 2010, 327 pp. (2a ed.); Anne Duncker, Menschenrechte im Islam: eine Analyse islamischer Erklärungen über die Menschenrechte, WVB, Berlin 2006, 142 pp.

26La versione in tedesco è nel sito: www.dadalos.org/deutsch/Menschenrechte.

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Magonza ritiene che gli Stati islamici siano propensi non solo ad accettare questa dichiarazione, ma anche ad applicare realmente i diritti umani in essa previsti. Questi ultimi però non coincidono totalmente con i cataloghi contenuti nelle costituzioni democratiche e quindi, secondo Forstner, non è lecito relativizzare la libertà di religione. Sulla base di una "più approfondita considerazione del testo in arabo", egli afferma “che i diritti umani qui proclamati non coincidono completamente con quelli delle Nazioni Unite, e che anzi i più importanti, come ad es. la libertà di religione, non vengono del tutto menzionati"27. Il altre parole, il testo arabo enuncia i diritti umani in modo diverso dalla Dichiarazione del 194828. Si apre qui l’annoso problema della difficoltà di tradurre in lingue extraeuropee concetti e istituzioni inesistenti (o esistenti in forma diversa) in altre culture: una difficoltà che si aggiunge a tutte le altre fin qui incontrate.

Nel mondo islamico esistono però anche posizioni più aperte. Ad esempio il "Zentralrat der Muslime in Deutschland" (ZMD) nella dichiarazione del 20 febbraio 2002 sui rapporti dei musulmani con lo Stato e la società asserisce: “Essi [i musulmani] accettano quindi anche il diritto di cambiare religione, di averne cioè un’altra, o anche nessuna“29.

Indubbiamente la difficoltà di tradurre in arabo i concetti occidentali può aver giocato un ruolo; ma resta certa l’incompatibilità fra lo Stato islamico e l’apostasia. E allora, come si concilia la democrazia di stampo occidentale con l’Islam? Sul punto fondamentale della libertà di religione (e quindi del cambio di religione) l’inconciliabilità sembra oggi insormontabile.

In conclusione, il quesito-chiave è questo: “Non provocherebbe un caos nella concezione del diritto, se – assunta una posizione di relativismo culturale – si facesse dipendere il contenuto dei diritti fondamentali dell’uomo dalle diverse concezioni dei valori nelle varie culture?”30. Küng (e Forstner, che cita Küng espressamente) propongono di elaborare nelle varie culture “un nucleo di valori contenente anche la libertà di fede e di religione” e di tentare di renderlo accettabile nelle varie culture, in modo da raggiungere “una base comune di elementari valori etici comuni”: è il progetto kunghiano del “Weltethos”, dell’etica mondiale31. Forse in futuro l’“etica mondiale” in cui spera Küng – ed in cui include anche “l’assoluta libertà di religione e di fede”32 – permetterà di conciliare anche Islam e democrazia: ma si tratta di una speranza troppo lontana per guidarci nella soluzione dei problemi odierni.

27Martin Forstner, Das Menschenrecht der Religionsfreiheit und des Religionswechsels als Problem des islamischen Staates, Verlag des Verbandes der wissenschaftlichen Geschichte Österreichs, Wien 1991, pp. 105-186 (estratto da “Kanon”, 10, 1991).

28Il diritto alla libertà religiosa “se ve almenos relativizado, si no neutralizado por completo, cuando, en una consideración más detenida del texto árabe, se constata que los derechos humanos en él proclamados no se corresponden plenamente con los de la Naciones Unidas y que precisamente aquellos que plantean problema, como, por ejemplo, el derecho a cambiar de religión, no son siquiera mencionados” (cit. in Hans Küng, El Islam, cit., p. 656). á í ó

29Cit. in Hans Küng, Der Islam. Wesen und Geschichte, Piper, München 2007, nota 18, p. 863.

30Queste considerazioni sono racchiuse nel paragrafo Rückfrage: Religionsfreiheit – auch zum Religionswechsel? (pp. 700-702). La citazione è a p. 702 di Hans Küng, Der Islam. Wesen und Geschichte, Piper, München 2007, 891 pp.

31Forstner rinvia a Hans Küng (Hg.), Dokumentation zum Weltethos, Piper, München 2002, 304 pp.; bibliografia pp. 267-304. Dissente: Benjamin Pommer, Menschenrechte als Basis eines Weltethos? Vorbehalte aus Afrika gegenüber dem Universalitätsanspruch der Menschenrechte, Grin Verlag, 2010, 33 pp. http://ebooks.ciando.com/book/index.cfm/bok_id/72814)

32Küng, El Islam, cit., p. 656.

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